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La ‘incredibile’ Dakar dei forlivesi Schiumarini-Succi-Salvatore

Missione compiuta – con brivido finale - per i romagnoli all’esordio nella maratona peruviana. Il racconto del rallysta Andea Succi.

Arrivare è vincere. E loro hanno vinto: Andrea Schiumarini, Andrea Succi e Massimo Salvatore hanno raggiunto il traguardo di Lima, togliendosi la soddisfazione di centrare l’obiettivo – per nulla scontato – di raggiungere la bandiera a scacchi della Dakar al primo assalto. Domare la Dakar, si sa, è impresa mai scontata, soprattutto se corri da privato e sei alla prima esperienza nell’infernale gara ideata da Thierry Sabine. Il risultato finale - terzo posto di classe T2 ed il quarantaseiesimo assoluto –, in questo caso, è l’aspetto meno significativo dell’avventura che i tre portacolori dell’R Team e del Racing Team Le Fonti hanno vissuto in Perù. Un’esperienza che Andrea Succi – unico rallysta dell’equipaggio – condivide con noi in queste sue ultime ore in Sudamerica.

“Siamo felicissimi e molto soddisfatti, ma quant’è stata dura!”, attacca da Lima il romagnolo che stasera, insieme ai compagni, lascerà Lima per rientrare in Italia. “Aver raggiunto la bandiera a scacchi è una gioia incredibile, oltreché una liberazione: i veterani ci avevano detto che la percentuali di debuttanti che riesce ad arrivare alla fine è sempre molto bassa. Ora, non faccio fatica a capire il perché… Gli organizzatori rendono il percorso sempre più difficile per mettere alla prova i mezzi ultra competitivi – tutti prototipi, peraltro - che corrono questa gara, ma per noi privati, in gara con mezzi derivati dalla serie e pure senza esperienza significa soffrire infintamente di più. Ci vogliono abilità, enorme capacità di adattamento ed un’incrollabile motivazione per riuscire ad arrivare in fondo. E anche un po’ di fortuna: pensa che, appena consegnata la tabella all’arrivo, la macchina si è spenta e non è più ripartita. Sul palco finale siamo saliti a spinta e l’abbiamo imbarcata così, senza con il motore ammutolito…”.

Verrebbe da chiederti se c’è stato un momento particolarmente difficile, ma par di capire che l’intera gara vi abbia continuamente messo alla prova.
“Guarda, a parte la seconda tappa – nella quale abbiamo infatti finito piuttosto bene in classifica –, è stata sempre un’avventura. E più si andava avanti, più aumentava la stanchezza e, di conseguenza, anche il numero degli errori, pure banali. Io ho avuto un cedimento fisico nel corso della quinta notte: alle tre eravamo sperduti nel mezzo del deserto e solo alle otto del mattino ci siamo coricati. Anche il nostro Ford Raptor ha iniziato a risentirne con il passare dei chilometri: inevitabilmente, visto che si tratta, come detto, di un mezzo derivato dalla serie. Diciamo, in generale, che la Dakar porta tutto all’estremo: devi saperti adattare a condizioni limite, come quella di non cambiarti per tre giorni e dormire pochissimo. Pensa che in un’occasione siamo arrivati e subito ripartiti, un’altra volta abbiamo dormito un’ora e venti. Dicono che sia la gara più dura del mondo: non so se sia così, ma è davvero un’esperienza che ti mette alla prova dal primo all’ultimo chilometro”.

Alla vigilia, avevi detto che il tuo obiettivo era evitare errori importanti, soprattutto i tanto temuti insabbiamenti. Com’è andata?
“Ah – ride -, io ero alla guida al primo start e dopo pochi chilometri eravamo già fermi! Sbagliare, per un debuttante, è inevitabile. E anche a me è capitato parecchie volte, sino alla fine; per dire, anche l’ultima notte sono incappato in un paio di errori importanti, che ci sono costati ore di sosta e fatica. Alle due e mezza eravamo in mezzo al deserto (eufemismo, ndr), siamo arrivati al campo con mezz’ora d’anticipo, riuscendo a ripartire per la tappa finale”.

Cosa ti ha insegnato la Dakar?
“Tanto, sotto ogni profilo: ci vuole sempre umiltà, guai sottovalutare qualcosa o prendere con supponenza qualche situazione. Umanamente, è nel momento del sacrificio che si vede se sei forte. Quando non dormi, quando sei fisicamente e mentalmente allo stremo, è dura… Con orgoglio, posso dire che squadra ed equipaggio sono stati superlativi. Con Andrea e Massimo ero amico da tempo, ma un conto è frequentarci in condizioni normali, un altro è vivere esperienze del genere. E loro si sono rivelate persone eccezionali: mai imprecazioni, mai accuse, quando sbagliavo hanno sempre lavorato a testa bassa per uscire dalla situazione. C’è sempre stato il giusto spirito, ed è stato fondamentale perché, se solo uno di noi avesse ceduto, sarebbe stata la fine, probabilmente… Lo stesso devo dire per la squadra: il camion di supporto ha fatto i miracoli, tutti sono stati eccezionali. Questo risultato è un successo di squadra. Peccato solo che l’altro equipaggio dell’R Team si sia fermato subito…”.

Due parole in più sull’R Team: un gruppo di poche persone capace di concretizzare l’impresa.
“Oltre ai due equipaggi in gara, il team era composto da Renato Ricker (autentica volpe del deserto, leader della squadra, uno che ha sempre la soluzione per ogni situazione, grande stratega e pianificatore), da suo figlio Ricky, che guidava il camion di supporto insieme al meccanico Buran Dragos, e dai tre meccanici Riccardo, Maicol e Stefano. Ragazzi esperti, di valore, non solo a livello sportivo e professionale, ma anche umano. Gente che vorresti sempre al tuo fianco, ecco… A loro, vorrei aggiungere il presidente del Racing Team Le Fonti, Paolo Ragazzini: ha sofferto più di tutti, a casa, dando grande risalto mediatico a questa nostra partecipazione. Ha saputo coinvolgere la gente, c’era mezza Forlì che ci ha seguiti ed in tanti, abbiamo scoperto, hanno fatto notte per aspettare il nostro arrivo. Non hai idea di quanti messaggi ho ricevuto da gente che neanche conoscevo. A tutti, squadra, sponsor, sostenitori e, ovviamente, anche alle nostre famiglie, devo un ringraziamento infinito”.

La Dakar è come te l’aspettavi?
“Mah, alla fine direi che è una cosa unica ed inimmaginabile. Vivi in mezzo a polvere e sabbia, dormi in tenda, ti lavi, dormi e mangi dove e come si può. I bivacchi mi hanno impressionato: autentiche città multietniche che nascono e scompaiono in poche ore, per riformarsi alcune centinaia di chilometri poco più tardi. Devo dire, a proposito, che anche lo spirito che pervade la manifestazione è speciale: anche i big vivevano negli stessi ambienti – anche se loro, ovviamente, avevano motorhome e comfort vari -, li vedevi nelle mense, nei luoghi comuni, e sempre molto disponibili con gli altri concorrenti e gli spettatori. Un clima che i nostri rally, ormai, hanno dimenticato… Ma la Dakar è fata anche di paesaggi fantastici, loghi che non pensavi esistessero: a volte, nonostante fossimo in gara, ci fermavamo a contemplare questi posti magici. La Dakar è anche la gente che segue con passione incredibile: ovunque c’erano file enormi di persone che non aspettavano altro che farsi un selfie o chiedere un autografo anche ad equipaggi ‘anonimi’ come noi. Riceverò tante domande e a tutte risponderò, ma per quanto possa raccontare non potrete mai capire cos’abbiamo visto e vissuto. Sì, la Dakar è davvero incredibile”.

Fra poche ore lascerete il Perù. Alla Dakar dai l’arrivederci o l’addio?
“Sino a qualche giorno fa, avrei detto un addio. Ma so che anche i veterani, quando arrivano, non ne vogliono più sapere, salvo poi desiderare di tornare qui dopo pochi giorni… Adesso, no so cosa dire: di sicuro, è un’esperienza che lascia una traccia forte e che richiede una preparazione notevole”.

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